Pechino alla prova del puzzle birmano
Domenica prossima (8 novembre), il popolo birmano si recherà alle urne per uno storico appuntamento, che potrebbe consegnare a Myanmar il suo primo governo democraticamente eletto dal lontano 1962, da costruire fra le fila di quello che, con tutta probabilità, sarà un parlamento radicalmente rinnovato. Oltre seimila candidati, sparpagliati lungo una galassia di quasi cento partiti, sono pronti infatti a darsi battaglia per entrare nei due rami dell’apparato legislativo, accomodandosi su uno fra i 330 seggi della Camera Bassa (Pyithu Hluttaw) e i 168 della Camera “delle Nazioni” (Amyotha Hluttaw). Non solo, la posta in palio di questa tornata elettorale riguarda anche il rinnovamento delle assemblee locali e, indirettamente, la stessa carica di Presidente, nelle mani dell’ex Generale e Primo Ministro Thein Sein dal 2011.
Non sorprende, quindi, che queste elezioni generali birmane siano guardate con interesse e trepidazione dentro e fuori i confini nazionali: mai, prima d’ora, un evento politico e mediatico aveva polarizzato a tal punto gli occhi della comunità internazionale sul martoriato Paese del Sud-est asiatico, dove negli ultimi anni si sono registrati progressi sostanziali (culminati con la normalizzazione delle relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti d’America) per uscire dallo stato di semi-isolamento dei decenni precedenti, anticamera di una crescente dipendenza dall’orbita del gigante cinese.
La correttezza della consultazione sarà monitorata in loco da vari team di osservatori inviati da Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, che molto si sono spesi per appoggiare il cammino di graduale riforma introdotto in Myanmar a partire dalla costituzione del 2008, capace di metter fine da un punto di vista formale allo strapotere della giunta militare e di porre le basi – seppur in forma embrionale – per una dialettica partitica fra lo Union Solidarity and Development Party (USDP) e la National League for Democracy (NLD) di Aung San Suu Kyi.
Il partito dello status quo contro il movimento della madrina della democrazia
Il primo, nutrendosi in massima parte di vertici militari che smettono la divisa per gettarsi nell’arena politica, rappresenta il partito dello status quo e della conservazione, fautore di un processo di riforma graduale e “disciplinato” che, almeno in ambito economico, ha iniziato a mostrare i propri frutti. Detentore di una maggioranza assoluta in entrambi i rami del parlamento grazie alla contestatissima vittoria nella tornata del 2010 – segnata dal boicottaggio delle opposizioni – negli ultimi mesi l’USDP ha sfruttato tutti i vantaggi della posizione di incumbent per salvaguardare il proprio ruolo di custode della transizione birmana, potendo inoltre contare su una naturale alleanza con le forze armate che, in base al dettato costituzionale, hanno diritto al 25% della rappresentanza parlamentare. Conscio dell’impossibilità di ripetere i risultati di cinque anni fa, il partito si è inoltre stretto attorno alla figura di Thein Sein quale simbolo di una ritrovata unità nazionale, candidandolo per un secondo mandato ed intestandogli la paternità della tregua firmata ad ottobre con otto delle quindici minoranze etniche che da decenni si oppongono al potere centrale.
Sul fronte opposto, invece, durante i due mesi di campagna elettorale Aung San Suu Kyi ha sfoggiato una fiducia crescente nella possibilità che il proprio partito ripeta l’exploit delle elezioni suppletive del 2012, quando, alla prima prova elettorale dopo dodici anni di semi-clandestinità, riuscì ad ottenere 43 seggi sui 46 in palio. Qualora centrasse una larghissima vittoria, in grado di assicurarle una maggioranza di due terzi in entrambe le aule, la NLD disporrebbe inoltre dei numeri necessari per nominare un nuovo Presidente: in tal caso, la scelta potrebbe ricadere sull’attuale speaker del parlamento Thura Shwe Mann, rimpiazzato dalla stessa Aung San Suu Kyi alla guida del ramo legislativo. La legge birmana, infatti, impedisce alla leader carismatica della lega dei democratici di candidarsi in prima persona per la carica più ambita, in quanto legata da vincoli di parentela a cittadini stranieri. Da un punto di vista organizzativo, il partito ha mostrato di recente un notevole grado di attivismo e vitalità, presentando alle urne – unico soggetto politico assieme all’USDP a raggiungere un simile livello di radicamento sul territorio – oltre mille candidati distribuiti su tutte le circoscrizioni nazionali.
Nelle ultime settimane, però, la popolarità della NLD ha subito una serie di battute d’arresto, a causa delle feroci polemiche che hanno animato il processo di selezione dei candidati e, contestualmente, degli “assordanti silenzi” di Aung San Suu Kyi sulle violenze che ancora oggi insanguinano il Paese. Nel primo caso, infatti, l’estromissione di alcuni padri nobili del movimento, nonché veterani delle sollevazioni del 1988, ha attirato numerose critiche verso i vertici del partito, accusati dai netizen birmani di tradire le proprie stesse radici. In aggiunta, la scelta di non prendere posizione rispetto al conflitto che nel nord della Birmania oppone le forze governative all’esercito dei Kachin, come riguardo alle persecuzioni di matrice religiosa che colpiscono i musulmani Rohingya, hanno esposto le forze democratiche ad un crescente fuoco incrociato. Da un lato, infatti, lo zoccolo duro degli elettori denuncia un atteggiamento troppo morbido nei confronti del governo, mentre, dall’altro, i gruppi più oltranzisti – come la temutissima Associazione per la Protezione della Razza e della Religione (Ma.Ba.Ta.) – accusano la NLD di essere al soldo dell’establishment musulmano e di governi stranieri, intimidendo candidati ed elettori allo scopo di preservare la posizione dominante dell’etnia buddhista Bamar all’interno del complesso mosaico nazionale.
Il ruolo di Pechino e un percorso post-elettorale che si annuncia pieno d’incognite
Fra i possibili scenari post-elettorali, oltre alle due ipotesi di una vittoria “a valanga” della NLD e di un sostanziale pareggio che salvaguardi il ruolo di ago della bilancia e di veto player in capo all’asse tra USDP e forze armate, c’è anche una terza eventualità che non andrebbe trascurata, e che chiama in causa quella moltitudine di partiti e candidati indipendenti – spesso espressione di gruppi locali – incapaci di svolgere un ruolo di primo piano su scala nazionale ma, nondimeno, in grado di rosicchiare una percentuale variabile di voti, sufficiente a garantire un sostanziale stallo fra i due “pesi massimi”. In un simile quadro, potrebbe quindi aprirsi una fase dai connotati potenzialmente oscuri, contrassegnata da una sostanziale paralisi nell’incedere del processo di riforma e da alleanze fragili, mutevoli e transitorie fra le varie anime del nuovo parlamento. Una situazione di caos che, non a caso, è vista con profondo timore da tutti quegli attori che di recente hanno rivolto le proprie leve politiche ed economiche al rilancio del Paese – Stati Uniti in primis – come anche da quelli intenzionati a riguadagnare antiche posizioni d’influenza, Cina su tutti.
Il percorso di riforma birmano, già dal 2010, ha infatti costituito una sfida diplomatica non indifferente per la Repubblica Popolare Cinese, che ha visto erodere in modo graduale ma inesorabile la pervasiva egemonia maturata durante i decenni delle sanzioni e dell’isolamento della giunta militare, allora additata come vero e proprio paria delle relazioni internazionali. L’intima e sbilanciata relazione bilaterale – un tempo glorificata sotto l’appellativo di “Pauk Phaw” (amicizia fraterna) – si è trovata a fare i conti con momenti di frizione manifesta: nel 2011, in occasione della sospensione del progetto della Diga Myitsone, finanziato con capitali di Pechino, oppure un anno più tardi, a seguito delle sollevazioni anti-cinesi nei pressi della miniera di rame di Letpadaung. Più di recente, l’offensiva militare portata avanti durante la scorsa estate dall’esercito birmano nell’area del Kokang – durante la quale si sono registrati cannoneggiamenti accidentali anche nell’adiacente regione cinese dello Yunnan – ha scatenato l’irritata reazione di Pechino, che, mossa senza precedenti, ha risposto organizzando una serie di manovre militari intimidatorie dell’Esercito popolare di liberazione (PLA) lungo la zona di confine.
Più in generale, la Cina si trova oggi nella scomoda posizione di dovere ricostruire la propria immagine di interlocutore benigno agli occhi della popolazione birmana, che nutre un crescente malessere verso le proverbiali interferenze del Dragone all’interno del processo di pace con le minoranze etniche, molte delle quali considerate come mere “quinte colonne” del potente vicino per via della loro diretta discendenza cinese. In aggiunta, le attivissime aziende di Stato operanti nel Paese hanno dovuto rivedere i propri modus operandi, così da abbracciare elementi di corporate responsibility, nell’estremo tentativo di contrastare le ormai diffuse denunce rispetto alla condotta della Repubblica popolare percepita, da molti, come unicamente interessata alla spoliazione delle ricche risorse birmane.
Al netto di simili elementi di criticità, la Cina può però ancora contare sul ruolo di primo partner commerciale della Birmania, come pure su una fitta rete di asset e interessi reciproci. Dopo l’inaugurazione del 2013, per esempio, la pipeline che collega sia mediante un oleodotto che un gasdotto il porto di Kyaukpyu con Kunming è già oggetto di nuove trattative, in vista di un suo potenziale ampliamento nel quadro della strategia della “One Belt One Road”. Allo stesso tempo, negli ultimi mesi la diplomazia di Pechino ha corteggiato in modo evidente il fronte delle opposizioni, come emerso in occasione dei colloqui tenutisi nel giugno scorso nella capitale cinese fra Aung San Suu Kyi, il presidente cinese Xi Jinping e il premier Li Keqiang. Nonostante gli sforzi profusi, tuttavia, è lecito ritenere che nel prossimo futuro la politica estera birmana verso la RPC non subirà sostanziali scossoni, sia nel caso di un trionfo delle forze progressiste che nell’eventualità di una conservazione dell’establishment attuale, continuandosi ad indirizzare in massima parte al consolidamento di una crescente emancipazione dall’ombra del Dragone.
Andrea Passeri è dottorando in Storia, Istituzioni e Relazioni Internazionali dell’Asia e dell’Africa Moderna e Contemporanea presso l’Università di Cagliari e assegnista di ricerca nel Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna. I suoi temi di ricerca principali riguardano la politica estera cinese nel Sudest asiatico e le strategie diplomatiche delle piccole e medie potenze dell’area.
Twitter: @andrea_passeri_