L’ideologia del coronavirus,
così il Partito comunista
si rafforza nella pandemia
Sono diverse le circostanze che hanno permesso al Partito comunista di arginare la diffusione del nuovo coronavirus all’interno della Cina: l’esperienza maturata nel 2002-2003 durante l’epidemia di Sars (Sindrome respiratoria acuta grave); il radicamento in ogni angolo del Paese (scuole e università, ospedali, fabbriche e uffici, quartieri…) delle organizzazioni di base del Pcc; la possibilità per il governo di Pechino di implementare rapidamente i provvedimenti varati, in assenza di “interferenze” da parte di opposizioni e/o corpi intermedi – per citare le più evidenti.
Un contributo fondamentale – per quanto invisibile ai non addetti ai lavori – lo ha dato però la determinazione del Partito a sfruttare le opportunità insite una crisi che pure avrebbe potuto metterne in discussione la direzione (la cosiddetta governance), se il SARS-CoV-2 fosse dilagato come in Occidente, dove finora ha mietuto la stragrande maggioranza delle vittime e dove sta terremotando sistemi economici e sociali. Del resto in mandarino la succitata dialettica è intrinseca nella parola “crisi” (weī jī, 危机), composta dai caratteri “pericolo” (weī, 危) e “opportunità” (jī, 机).
Un anno dopo l’esplosione dell’epidemia a Wuhan e nella provincia dello Hubei, le lacune palesate da un servizio sanitario pubblico in gran parte ancora arretrato; il “burocratismo” dei funzionari locali che ha rallentato la risposta iniziale delle autorità; i gravi danni inferti alla produzione, in particolare a un settore secondario e terziario composto soprattutto da micro imprese e “partite IVA”, rappresentano tuttora problemi pressanti per l’amministrazione di Xi Jinping.
Tuttavia il numero relativamente esiguo (4.635) di morti ufficialmente registrati nel Paese, il risveglio della metropoli sul Fiume azzurro da un lungo, durissimo lockdown, la ripresa del Prodotto interno lordo (+8,4% la stima per il 2021) e la prospettiva – come rilevato un recente studio – che il Pil cinese scavalchi quello statunitense prima del previsto, hanno permesso al Partito di trasmettere al popolo un messaggio inequivocabile: quello della “superiorità” del sistema cinese rispetto alle democrazie liberali nella gestione delle crisi (crisis management), un insegnamento che mira a rafforzare la legittimità del Pcc a governare come partito unico. In particolare, i successi ottenuti confermano la validità della scelta strategica di un governo sempre più forte e centralizzato nella leadership del Partito, alla base della “Nuova era” inaugurata da Xi col XIX Congresso nazionale del Partito (18-24 ottobre 2017).
Se il Partito ha potuto trarre vantaggio da una crisi potenzialmente destabilizzante, ciò è stato reso possibile principalmente da due fattori: la sua capacità di mobilitazione (delle sue stesse strutture, della popolazione in generale, e di ingenti risorse finanziarie) e il controllo totale sull’informazione.
Nelle loro analisi sul consenso di cui gode il Partito comunista, gli studiosi occidentali hanno tradizionalmente attribuito un ruolo preminente alla sua capacità di produrre benessere. Tuttavia, dopo anni di rallentamento della crescita e il susseguirsi di crisi gravi, i limiti di questa lettura economicistica appaiono evidenti, mentre acquistano un rilievo rilievo sempre più evidente anche altri fattori, tra i quali il crisis management e l’abilità nell’influenzare la percezione dei cinesi rispetto alle politiche del loro governo.
Le immagini degli ospedali al collasso negli Stati Uniti, delle manifestazioni di protesta contro le chiusure a Londra e Berlino, dei camion militari riempiti di bare a Bergamo – ovvero il contrasto, puntualmente sottolineato dai media locali, tra il disastro dell’Occidente e la stabilità della Cina – sono in grado di rafforzare, più di qualunque altro evento del passato recente, il discorso sulla legittimità del Partito comunista cinese fondato sulla sua capacità di gestione delle crisi e, più in generale, sulla sua efficienza.
Il trionfalismo predisposto per la “vittoria della Cina sul COVID-19” è direttamente proporzionale al numero spaventoso di morti registrati in paesi democratici con economie avanzate che, assieme alla stessa causa di questa ecatombe (un virus, che, per ragioni culturali, in Oriente mette paura più che in Occidente), rende la narrazione degli apparati di propaganda ancora più pregnante degli ultimi due casi (entrambi nel 2008) in cui il Pcc ha fronteggiato emergenze simili, ovvero la crisi finanziaria globale e il terremoto di Wenchuan.
La narrazione grandiosa della “vittoria della Cina contro il coronavirus” potrà anche contribuire ad accentuare competizione e frizioni con l’Occidente, dal momento che con essa il Partito ribadisce una fiducia assoluta nel suo sistema alternativo, politico e di valori, in una fase di accentuata competizione internazionale. Il suo obiettivo principale restano però i cuori e le menti dei cinesi.
Quella che il presidente cinese, Xi Jinping, ha definito «una battaglia straordinaria contro l’epidemia», combattuta «dal nostro popolo di tutti i gruppi etnici unito sotto la guida del Partito», che «ha resistito con successo a un’ardua, storica prova», viene glorificata in manifestazioni ufficiali, spettacoli, documentari, canzoni, sfruttando la “convergenza dei media” – cioè lo sviluppo integrato dei diversi mezzi di comunicazione, tutti, direttamente o indirettamente, controllati dal Pcc – per rafforzare la penetrazione, l’influenza e la credibilità del messaggio del Partito, condizionando la percezione soggettiva della popolazione rispetto all’operato della leadership.
Il 7 settembre scorso – durante una cerimonia solenne nella Grande sala del popolo – Xi ha consegnato personalmente le “medaglie della Repubblica” allo pneumologo Zhong Nanshan e ad altri “eroi del popolo” che hanno dato un contributo fondamentale alla lotta alla SARS-CoV-2.
Mentre “Hunan Tv” – il canale più seguito dai giovani – diffondeva il video della canzone Forza Wuhan, Youku (lo YouTube cinese) trasmetteva L’amore vincerà, omaggio musicale ai medici e agli infermieri intonato dalle star del pop nazionale, sponsorizzato dalle principali organizzazioni culturali del Partito.
Nella colossale mobilitazione della propaganda non sono mancati i tentativi di influenzare i giovani all’estero, ad esempio con i Viral Videos with Ryan della “CGTN” (la “CNN” cinese), o con le animazioni di Wuhan, China, dove la voce fuori campo assicura che «noi stiamo sfidando il virus per il bene dell’umanità». La “CGTN” ha prodotto anche il documentario in due puntate The Frontline: China’s fight against COVID-19.
Gli articoli di giornale e i servizi delle tv hanno sottolineato – spesso servendosi delle corroboranti testimonianze di commentatori stranieri – l’immagine di un sistema cinese efficiente contrapposto alle democrazie liberali, che «mettono in atto risposte meno efficaci, perché i politici usano l’epidemia come un pretesto per attaccarsi reciprocamente».
Il discorso sulla “superiorità” del sistema cinese rispetto alle democrazie liberali viene diffuso da un apparato di propaganda che per dimensioni, pervasività e sofisticatezza non ha precedenti nella storia dell’umanità, anche se non mancano le sbavature, come nel caso della serie patriottica Heroes in Harm’s Way, che ha suscitato critiche di maschilismo.
Quest’immensa produzione patriottica multimediale esalta lo status di una Cina che nella “Nuova era” è organizzata diversamente e meglio dell’Occidente. Il professor Zhang Weiwei ha riassunto cinque caratteristiche fondamentali, riscontrabili nella battaglia contro il coronavirus, che – secondo il direttore del “China Institute” dell’Università Fudan di Shanghai – distinguono nettamente la Repubblica popolare dall’Occidente:
1) l’approccio cinese secondo cui “ogni vita è preziosa” si è dimostrato superiore alla difesa di “valori universali” da parte dell’Occidente, perché «è ridicolo che alcuni paesi che non rispettano il diritto alla vita del loro popolo pretendano di insegnare alla Cina i diritti umani»;
2) il popolo cinese ha dato una grande dimostrazione di solidarietà, mentre «alcuni paesi occidentali hanno società profondamente divise, flagellate dagli interessi di parte, dall’egoismo e da governi indifferenti che non godono più della fiducia della popolazione;
3) la responsabilità dimostrata dal popolo cinese durante la pandemia è il contrario della «nozione di libertà, il cuore del liberalismo e della democrazia occidentali, messi a dura prova durante la pandemia»;
4) la pandemia ha dimostrato che «mentre alcuni paesi occidentali sono riluttanti ad assumersi la loro responsabilità in quanto membri della comunità internazionale», l’impostazione giusta è quella della Cina, che considera il mondo «una comunità globale dal futuro condiviso»;
5) la vittoria del “socialismo di mercato” sul coronavirus ha «de-idealizzato il mondo occidentale, il modello occidentale e la narrazione occidentale», perché, grazie all’utilizzo delle tecnologie più moderne, la Cina ha dimostrato che «il sistema politico di un paese moderno nel XXI secolo deve essere in grado generare una risposta rapida, di esprimere una leadership, un coordinamento e una mobilitazione efficienti. Queste capacità sono necessarie per dare al suo popolo libertà e diritti umani nel vero senso della parola».
Esaltazione della “benevolenza” dei governanti; rivendicazione e difesa del sistema autoritario di governo; rifiuto del liberalismo; promozione della nuova centralità internazionale della Cina; valorizzazione dell’efficienza del “socialismo di mercato”, fondata anche sull’impiego delle più moderne tecnologie di sorveglianza: nella rappresentazione dell’esperienza della lotta al coronavirus ritroviamo un discorso costruito in coerenza con i canoni della “Nuova era”, che propone uno “hot pot” (huŏ guō, 火锅), un miscuglio ideologico di confucianesimo, marxismo sinizzato e patriottismo.
Una narrazione che – per l’importanza della posta in gioco – non può essere contraddetta né dalle critiche di dissidenti (giornalisti indipendenti, accademici, attivisti… puntualmente puniti in maniera esemplare dagli apparati repressivi), né da istituzioni internazionali come l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la cui indagine sull’origine della pandemia viene seguita passo dopo passo dalla leadership, per evitare che le sue conclusioni contraddicano il racconto del Partito.
Da quanto detto finora risulta che il discorso promosso dalla leadership sulla vittoria nella «guerra popolare» lanciata da Xi Jinping e compagni contro il «nemico invisibile» del coronavirus è destinato a posizionarsi come una pietra miliare lungo lo sviluppo di quella ideologia informale diretta a giustificare agli occhi del popolo la necessità di un regime autoritario che, assieme all’ideologia formale (il marxismo, utilizzato invece soprattutto nel dibattito interno al Partito), costituisce uno strumento essenziale grazie al quale il Pcc si rilegittima in continuazione, anche attraverso le crisi.
Dopo il massacro di Tiananmen (4 giugno 1989), Deng Xiaoping riconobbe che «durante gli ultimi dieci anni, l’errore più grosso lo abbiamo compiuto nel campo dell’educazione, anzitutto quella ideologica e politica, non soltanto degli studenti ma del popolo in generale».
Il Partito, che dopo la fuga nell’utopia della Rivoluzione culturale aveva relegato in soffitta l’ideologia, riprese un’iniziativa che – diretta dapprima soprattutto alla sua élite, per elaborare una giustificazione in termini “marxisti” della contraddittoria coesistenza del governo di un partito comunista e di un’economia semi-capitalista – con lo sviluppo di internet si è gradualmente estesa all’intera società e che l’attuale leadership considera centrale nella “Nuova era” proclamata da Xi Jinping.
«La leadership del controllo del pensiero costituisce la priorità assoluta per mantenere la leadership complessiva», sosteneva Mao Zedong. Nell’era digitale, Secondo Xi «il Partito deve accordare priorità alle piattaforme mobili» ed esplorare l’impiego dell’intelligenza artificiale nella raccolta, produzione e distribuzione, ricezione delle notizie e dei feedback. The Revolution Will Not Be Televised, cantava negli anni Settanta Gil Scott-Heron esortando gli afroamericani all’azione. Al contrario, la storia della “vittoria nella battaglia contro il coronavirus” – celebrata in tv, su internet, nei cinema, sui giornali, nelle radio… – è destinata a entrare nella grande epopea del popolo cinese sotto la guida del Partito comunista, e ad accompagnarlo fino al 1949 (quando ricorrerà il centenario della fondazione della Repubblica popolare) e oltre.
La pandemia di SARS-CoV-2 presenta delle similitudini con la crisi finanziaria globale del 2008, quando – nonostante i danni subiti anche dalla Cina – le misure, rivelatesi efficaci, messe in atto per fronteggiarla, le drammatiche ripercussioni sulle economie dei paesi avanzati e la capacità di valorizzare la sua risposta finirono per rafforzare la legittimità del Partito.
Quello stesso anno, dopo il terremoto di Wenchuan (12 maggio 2008, 7,9 scala Richter, oltre 15 mila morti) il Pcc lanciò campagne di soccorso, ricostruzione e propaganda sottolineando la sua capacità di crisis management. Grazie all’intervento del governo centrale e alla successiva ricostruzione, quella contea (nella provincia sud-occidentale del Sichuan) venne profondamente modernizzata.
Ma i mezzi di cui disponeva il Partito 12 anni fa (sia in termini di leadership che di propaganda) non erano paragonabili a quelli attuali; e il coronavirus ha rappresentato un pericolo ben più insidioso e tangibile di un sisma in un’area remota del Paese o di una crisi finanziaria.
In conclusione, il capitalismo ha prodotto in Cina un aumento delle disuguaglianze, l’esplosione del malaffare, e introdotto nuovi valori. Sono queste le tre principali contraddizioni che il “socialismo di mercato” è costretto ad affrontare dal 1992, da quando cioè Deng e i riformisti riuscirono finalmente a imporre al Partito la strada di continue aperture al settore privato.
Su tutti e tre i fronti, il Partito di Xi Jinping sta mostrando una vitalità e una capacità di adattamento-reazione straordinarie. Il crescente divario tra ricchi e poveri viene affrontato con le campagne contro la povertà e con un parziale quanto tardivo ridimensionamento del ruolo dei monopoli privati più clamorosi, come nel caso di Alibaba. E il malaffare ha trovato un argine senza precedenti in una campagna anti-corruzione permanente.
Per neutralizzare le nuove idee (democrazia, libertà individuale, società civile…) con le quali la Cina aperta al mondo degli ultimi decenni è entrata in contatto, il Pcc punta sulla diffusione scientifica di un’ideologia informale composta da valori opposti al liberalismo, la cui validità sembra peraltro confermata dalla crescente difficoltà delle democrazie ad affrontare le crisi, da un punto di vista sia gestionale sia valoriale.
Michelangelo Cocco è autore di Una Cina “perfetta” La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale (Carocci editore).