“Ecco perché Pechino si tiene alla larga dal fuoco israelo-palestinese”
Quasi non passa giorno che dalla Cina o da Israele non viene annunciato un nuovo accordo bilaterale tra i due Stati: economico, o scientifico, nel campo dell’istruzione… Tuttavia per capire quanto durerà la “luna di miele” tra due paesi complessi come la Cina e Israele non è sufficiente sommare le intese che Pechino e Tel Aviv stanno sottoscrivendo negli ultimi tempi. Per cercare di capire i tanti e contraddittori fattori che entrano in gioco in questa “nuova” relazione (nell’ambito di un Medio Oriente in trasformazione) abbiamo intervistato il professor Yoram Evron, sinologo ed esperto di difesa del Dipartimento di Studi Asiatici dell’Università di Haifa.
Professor Evron, quella che si sta sviluppando tra Cina e Israele è una relazione davvero così vantaggiosa per entrambi i paesi? Non intravede possibilità di attriti tra Israele e Stati Uniti in conseguenza del rafforzarsi del rapporto tra Pechino e Tel Aviv?
Si tratta di una situazione win win, perché è molto chiaro, sia alla Cina sia a Israele, quali sono i limiti di questa relazione economica. Mi riferisco al fatto che tra Stati Uniti e Israele c’è un’intesa su quale tipo di tecnologia può e quale invece non può essere “trasferita” a Pechino. In seguito agli scontri del passato tra Stati Uniti e Israele proprio su questa questione, Israele è diventato molto rigoroso, e la Cina ne è consapevole. Perciò entrambe le parti non superano la linea rossa e il loro rapporto procede senza intoppi. Netanyahu ha sottolineato a più riprese che quella con la Cina è una relazione importante, soprattutto per l’economia israeliana. Può darsi che il premier israeliano abbia sempre enfatizzato la dimensione economica del rapporto bilaterale, ritenendo che i due Stati non possono procedere su altri aspetti, men che mai su quello degli armamenti. È altrettanto chiaro che quelli occidentali – che sono stati i principali mercati di destinazione per l’export israeliano, nonché la sua principale fonte di finanziamento – non sono nelle stesse buone condizioni di salute in cui versavano in passato, mentre la Cina e altre economie orientali sono in crescita. E questa è la seconda ragione per cui è stata tanto enfatizzata la relazione economica di Israele con la Cina. È tuttavia molto difficile stabilire quanto di questi avanzamenti nella relazione bilaterale sia attribuibile a Netanyahu, perché, in generale, tutti i progressi nella relazione bilaterale tra Israele e Cina (non soltanto quelli in ambito economico) dipendono soprattutto da Pechino. Spetta alla Cina decidere a che velocità far avanzare il rapporto di amicizia con Israele. Certo, a partire dalla seconda metà del 2013, si è registrata una notevole accelerazione della dimensione economica del rapporto bilaterale. Ma, anche se l’export israeliano verso la Cina da allora continua a crescere, resta tuttora al di sotto del suo potenziale. Se misuriamo le esportazioni da Israele verso la Cina in relazione all’export israeliano nel suo complesso, esse risultano al di sotto del loro potenziale. Così come, per quanto riguarda gli investimenti di Pechino in Israele, essi rappresentano una porzione molto piccola degli investimenti cinesi nel mondo.
Quale contributo potrebbe dare la Cina per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese? Ci sono segnali di un reale impegno cinese in quel ginepraio?
Non ci sono indicazioni che la Cina voglia realmente impegnarsi in questa questione. Ovviamente, le cose possono cambiare e Pechino in futuro potrebbe decidere di mostrarsi più attiva su questo fronte. La posizione della Cina comunque, finora, è stata molto chiara: già dal 1988 si è espressa in favore di uno Stato palestinese. Ha sempre pronunciato il suo sostegno alla causa palestinese. E tuttavia, finora, non è andata molo oltre quella dichiarazione di principio: la sua assistenza finanziaria ai palestinesi è rimasta molto limitata. E negli ultimi conflitti (a Gaza, ndr) ha fatto appello alla moderazione da entrambe le parti, ma non ha stigmatizzato né fatto alcuna pressione su Israele affinché esercitasse moderazione. Per Pechino è importante mantenere l’equilibrio: affermando, da un lato, il suo appoggio ai palestinesi ma, dall’altro, senza mai andare oltre questo sostegno di principio… per dirla molto semplicemente, credo che la Cina non voglia rimanere coinvolta in questo casino. Non è nei suoi interessi, perché ha visto che gli Stati Uniti e altre potenze mondiali non sono riusciti a risolverlo e non ritiene di avere l’autorità per fare di meglio. Inoltre la Cina è alle prese soprattutto con seri problemi interni – il suo modello di sviluppo, questioni ambientali, etc. – e il conflitto israelo-palestinese rappresenta per Pechino un problema piuttosto remoto.
Crede che la riluttanza di Pechino nell’affrontare la questione possa essere in parte legata ai suoi problemi con la minoranza degli uiguri musulmani?
Non credo: se uno Stato palestinese indipendente servisse alla sua politica, Pechino lo sosterrebbe comunque. E invece non ha alcun motivo per mettere le mani nel fuoco. Non si tratta di una questione legata alla sua minoranza islamica del Xinjiang (gli uiguri) ma all’equilibrio di interessi della Cina.
Da Israele, come si guarda all’ascesa della Cina?
Israele ha realizzato che si tratta di uno dei fenomeni più importanti del XXI secolo. E che – nonostante Israele, tradizionalmente, si concentri sul suo “ambiente circostante” (il Medio Oriente, ndr), non può ignorare questo fenomeno. L’Asia e l’Asia orientale sono al di fuori della politica estere e delle strategie di Israele. Tuttavia l’ascesa della Cina è un fatto troppo grosso per essere ignorato, per questo Israele sta investendo energie per migliorare la sua relazione con la Cina. Il problema è che si trova di fronte a degli ostacoli, anzitutto gli Stati Uniti e il rapporto di questi ultimi con la Cina. Israele non vuole mettere a rischio il suo rapporto con gli Stati Uniti o irritare di nuovo gli Stati Uniti a causa della Cina. Netanyahu ha dichiarato che l’ascesa della Cina rappresenta uno degli sviluppi più importanti nel mondo. Parlava di economia, ma probabilmente pensava anche ad altri aspetti. Il problema è che Israele non è una potenza mondiale, è a malapena una potenza regionale: non fa parte del suo dna politico, strategico e diplomatico impegnarsi in processi così distanti.
E come la Cina vede Israele, è interessata solo alla sua tecnologia?
La Cina considera Israele importante per due aspetti fondamentali. Anzitutto, l’accesso alla tecnologia. Secondo, il ruolo e la posizione di Israele nel Medio Oriente. Gli interessi di Pechino nell’area stanno crescendo, e con essi la sua dipendenza dalla Regione. Quindi gli sviluppi politici in Medio Oriente sono importanti per la Cina. E Israele è un attore regionale importante con il quale la Cina vuole tenersi in contatto, perché può rappresentare una preziosa fonte d’informazioni e know how su come affrontare il terrorismo islamico. Infine, per la Cina Israele è importante per la relazione di quest’ultimo con gli Stati Uniti. La Cina – nel tentativo di acquisire lo status di potenza mondiale e avere un ruolo più importante in Medio Oriente – può essere interessata a mostrare di “avere accesso” non più soltanto ai rivali degli Stati Uniti, ma anche ai suoi alleati. E lo stiamo vedendo chiaramente, in Medio Oriente, dove Pechino sta costruendo ottimi rapporti con l’Egitto, l’Arabia Saudita, la Turchia e forse anche Israele. Tutti tradizionali alleati di Washington.
Questo articolo fa parte di una serie dedicata al rapporto bilaterale sino-israeliano e alla posizione di Pechino sul conflitto israelo-palestinese
Tel Aviv e Pechino in luna di miele