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Hong Kong vista da Pechino: la democrazia non è un pranzo di gala

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男忍 men of patience / 第一屆香港國際紋身展, see-ming lee

 

Dall’inizio, poco più di due settimane fa, del movimento di protesta “Occupy Central”, su media e social media occidentali hanno prevalso nettamente i commenti e le analisi che puntano l’indice contro l’autoritarismo del Partito comunista cinese (Pcc), reo di negare una riforma realmente democratica del sistema elettorale di Hong Kong.

Accuse ripetute con più forza dopo che le autorità della Regione ad amministrazione speciale (HKSAR) hanno cancellato l’incontro con i rappresentanti dei dimostranti – inizialmente fissato per il 10 ottobre – dopo che i leader degli studenti avevano minacciato di proseguire e intensificare l’occupazione delle strade del centro dell’ex colonia britannica fino a che le loro richieste non fossero state accolte. Appelli “illegali” che “hanno minato le basi per un dialogo costruttivo”, ha replicato il numero due di Hong Kong, Carrie Lam.

Mentre gli studenti hongkonghesi e i media occidentali si accaniscono contro la “slealtà” di Pechino, ben poco spazio è stato dedicato ai progressi che la proposta di riforma elettorale presentata lo scorso 31 agosto dal Comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo (NPCSC) rappresenta in termini di “democrazia” rispetto alla Hong Kong pre-1997, quando il governatore veniva scelto unilateralmente a oltre 9.000 km di distanza.

 

Il partito detta la linea attraverso il Quotidiano del popolo e China daily

Per comprendere anche le ragioni di Pechino, con questo articolo proveremo a ripercorrere la vicenda facendo riferimento esclusivamente a quanto riportato dai principali quotidiani del Pcc, il suo organo ufficiale Renmin Ribao (il Quotidiano del popolo) e China Daily, rivolto a un pubblico più internazionale.

In una serie di editoriali pubblicati sui due organi di stampa succitati, è stato ribadito che le motivazioni per cui Zhongnanhai (la sede dove vivono e lavorano i leader del Pcc, a due passi dalla Città proibita) non accetta, né potrà ammettere in futuro, le proposte dei pan-democratici di Hong Kong sono semplici: esse violano la Basic law, la “mini costituzione” della Regione ad amministrazione speciale (HKSAR), che stabilisce che il chief executive debba essere nominato da un apposito Comitato, il cui scopo è quello di selezionare leader che rispettino la Costituzione e il suo principio cardine: “un Paese, due sistemi”. Nel testo è inoltre specificato che anche le procedure per le future elezioni a suffragio universale dovranno essere in linea con la Costituzione.

La presenza del Comitato per le candidature – rigidamente controllato da Pechino – è dunque un requisito procedurale definito chiaramente nella Basic law.

La proposta avanzata il 31 agosto scorso dal NPCSC prevede che i cittadini di Hong Kong possano votare uno tra i due o tre papabili selezionati dal Comitato per le candidature. Chiunque può presentarsi, ma per essere nominato candidato deve ottenere l’approvazione di oltre la metà dei membri del Comitato. E possedere un requisito imprescindibile: “amare la nazione, amare Hong Kong” (爱国爱港), principio cardine della Costituzione della HKSAR.

Qualora il governo centrale cedesse alle richieste dell’opposizione – eleggibilità di qualsiasi candidato senza previa approvazione del Comitato – violerebbe le procedure stabilite dalla Basic Law, e di conseguenza il principio stesso di rule of law, per il rispetto del quale Hong Kong è tanto apprezzata dalla Comunità internazionale.

Inoltre, le campagne elettorali si trasformerebbero di fatto in una battaglia tra un campo pro-Pechino e uno anti-Pechino e il rischio dell’elezione di un estremista/populista/indipendentista animato da sentimento anti-cinesi è qualcosa che Zhongnanhai non può correre – oltre ad essere contro il principio “un Paese, due sistemi”, e quindi contro la Costituzione.

 

Quando per la colonia britannica nessuno invocava libertà ed elezioni

Secondo la logica di Pechino, “il sistema elettorale richiesto dai pan-democratici potrebbe minare la sicurezza nazionale; e come può un governo appoggiare un candidato potenzialmente in grado di minare la sicurezza nazionale che, per giunta, verrebbe eletto tramite un sistema elettorale in violazione della Basic law? Così si aprirebbe una crisi costituzionale”.

E se da un lato Pechino invita i media occidentali, soprattutto quelli statunitensi, ad essere “giusti e imparziali”, ricordando loro come durante il movimento “Occupy Wall Street” di tre anni fa si siano verificati maggiori disordini e talvolta anche “episodi brutali” da parte delle forze dell’ordine, dall’altro ricorda come la “democrazia”, tanto invocata dagli stessi media, sia sempre stata assente nella HKSAR: durante i 150 anni di dominazione inglese, Hong Kong non ha mai goduto di un sistema che ricordi nemmeno lontanamente una qualche forma di democrazia. Semplicemente, in quel periodo, nessun media occidentale riteneva la democrazia necessaria per Hong Kong.

Lo sviluppo democratico di Hong Kong è cominciato soltanto dopo il ritorno dell’ex colonia alla Cina. L’idea di una forma di democrazia è stata infatti introdotta per la prima volta nel 1990 proprio dal governo di Pechino, che formulò nella Basic law l’impegno a indire elezioni a suffragio universale entro il 2017. Come ha scritto sul Renmin Ribao Wang Zhenmin, Preside della facoltà di Legge dell’Università Qinghua, “la nuova riforma presentata dall’NPCSC è un primo passo verso la democrazia, il suffragio universale verrà ottenuto solamente al termine di un percorso; pensare che ‘si possa scalare il cielo con un solo passo’ è impossibile”.

 

La relazione politica tra governo centrale e la HKSAR prevede che Zhongnanhai abbia pieno controllo e sovranità sullo sviluppo costituzionale di Hong Kong.

Negare questo punto equivale a negare la sovranità di Pechino su Hong Kong. Ed è proprio questa la causa dell’attuale stallo tra studenti e autorità.

 

 

Alessio Petino è Master’s candidate in International Relations presso la Beijing Foreign Studies University