Dante in Cina
Funzionario delle dogane imperiali (nominato mandarino di IV classe), maniaco dell’esercizio fisico, console generale italiano nella Cina meridionale, vegetariano integralista, abile giocatore di wei chi, studioso e divulgatore della Commedia in Estremo Oriente. È un personaggio singolare e di multiforme ingegno Eugenio Zanoni Volpicelli, protagonista di “Dante in Cina”, il libro di Eric Salerno in libreria dal 14 giugno, pubblicato da Il Saggiatore.
Nato a Napoli nel 1856, studente modello del Collegio Cinese, nel 1881 Volpicelli lascia il capoluogo partenopeo, allora tra i maggiori centri culturali europei. Poliglotta, sempre in viaggio, dopo aver vissuto a Hong Kong e Macao, approda a Nagasaki. E, dalla sua dimora sul Peak fino alla Napoli d’Oriente, si porta sempre dietro la passione per la Commedia dantesca.
Se nella sua vita ricca e movimenta il ruolo di console può essere letto quasi come un pretesto per la “superiore missione” di diffondere in Estremo Oriente l’opera del sommo poeta, la carriera e le avventure di Volpicelli seguono i travagliati eventi della Cina a cavallo tra Ottocento e Novecento, nel momento in cui il paese è alle prese con il tramonto dell’ultima dinastia, la rivolta dei boxer, il saccheggio coloniale. Un territorio in preda al caos di cui Volpicelli rispetta e stdia la cultura millenaria e intuisce le potenzialità future.
Abbiamo intervistato Salerno – autore, tra l’altro di “Mossad base Italia”, “Uccideteli tutti. Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana” – che con “Dante in Cina” per la prima volta sposta il suo sguardo attento e la sua prosa elegante di giornalista-storico dal Medio all’Estremo Oriente.
Intellettuale, avventuriero, qualcuno ipotizzò perfino spia… chi è davvero Eugenio Zanoni Volpicelli, personaggio straordinario pressoché sconosciuto in Italia al centro della trama di “Dante in Cina”?
È soprattutto un personaggio dell’epoca, un uomo che è riuscito a fare un’enorme quantità di cose. Avventuriero? Sì. Intellettuale? Anche. Si è formato in una famiglia di una certa borghesia (militare da parte di madre e intellettuale da quella di padre), con molti contatti internazionali. Il ramo napoletano dei Volpicelli è quello che più mi ha affascinato, anche perché il capoluogo partenopeo all’epoca era sicuramente la capitale della cultura italiana e una di quelle della cultura europea. Prima di partire per la sua grande avventura in Estremo Oriente, Volpicelli frequentò questo tipo di famiglie, che oggi definiremmo del “salotto bene” di Napoli.
Come è nata l’idea di approfondire la vita e la carriera di questo personaggio?
All’epoca del mio primo matrimonio, mia moglie mi raccontava di un suo prozio che era stato in Cina tanti anni prima, che lei non aveva mai conosciuto. Ma sua nonna era la sorella della moglie di questo Volpicelli. E a casa avevamo delle carte… mi mostrò delle buste arrivate dall’Estremo Oriente, con francobolli cinesi. Allora ero appassionato di filatelia, le osservavo con curiosità. Quando ci siamo separati, alcune sono rimaste a lei, altre le ho tenute io. E, a un certo punto, è stata lei a spronarmi: “Perché non cerchi di scoprire qualcosa di questo zio di cui una volta abbiamo visto una notizia su un giornale cinese o giapponese, del quale non abbiamo saputo più nulla?”. “Chi è questo personaggio. Cosa ha fatto davvero nella vita?”. Ero qui a Gerusalemme in pianta stabile, e mi occupavo di Medio Oriente da troppi anni. Allora mi sono detto: forse indagare su un’altra parte del pianeta – dal momento che il mondo non è fatto solo di ebrei, palestinesi, petrolio – è una bella sfida. Ho iniziato ad approfondire, a partire dalle testimonianze che avevo in casa, dalla mia ex suocera, che conservava ancora alcuni ricordi della moglie di Volpicelli.

Il tram che porta al Peak, la collina che sovrastata la baia di Hong Kong dove i Volpicelli e altri diplomatici abitavano
Come è proseguita la ricerca?
Sono andato a consultare gli archivi italiani: l’archivio storico del ministero degli esteri, dove ho scoperto che il fascicolo sul signor Volpicelli era registrato, con tanto di numero di serie, ma non si trovava più. Perduto all’interno dell’archivio? Rubato? Sottratto da qualche studioso, come è successo a tanti altri incartamenti? Visto che a Roma di Volpicelli non c’era più traccia, ho fatto rotta su Napoli. All’Orientale ho trovato un fascicolo di sei pagine di appunti vari, tra cui alcuni che riguardavano la presenza di Volpicelli in quell’Università, dove insegnò per breve tempo, di ritorno dalla Cina. A quel punto, mi sono rivolto agli archivi online di giornali americani e cinesi, dove finalmente ho reperito un bel po’ di materiale. Negli Stati Uniti ho trovato un numero di una rivista italoamericana che pubblicò un capitolo intero – riprodotto nel libro – del viaggio di Volpicelli in canoa alla ricerca di Dante. Una lettura e una scoperta magnifiche: paragonare i luoghi del suo racconto a quelli attuali, ritrovare oggi quei posti, i cui nomi nel frattempo sono cambiati, è stata un’esperienza straordinaria. Mi sono sempre occupato di colonialismo italiano, e mi sono ritrovato in un’avventura coloniale, imperiale, una delle prime, più interessanti e distanti dall’Italia.
Il colonialismo, con le sua avventure e i suoi orrori – compresi quelli ancora non detti, non raccontati – è sullo sfondo anche di “Dante in Cina”. Quali differenze ha potuto rilevare tra il colonialismo italiano che meglio conosciamo, in nord Africa, e quello in Estremo Oriente?
In Estremo Oriente, piuttosto che della ricerca di un territorio dove spedire gli italiani, si trattava di quella di uno spazio economico da colonizzare. Quasi del tentativo di costruire un impero, che si ponesse a un livello più “alto” rispetto alla colonia: conquistare delle postazioni italiane che potessero dare dei frutti a livello commerciale, di approvvigionamento di materie prime. Al contrario, il colonialismo che abbiamo visto all’opera in Africa (Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia) diceva: mandiamo i nostri a colonizzare, perché in tal modo lavoreranno fuori da un’Italia diventata troppo piccola, produrranno e contribuiranno ad arricchire loro e la madrepatria.

Volpicelli alla sua scrivania su cui troneggia una delle numerose statue di Dante che lo hanno accompagnato in giro per il mondo
La carriera di Volpicelli si svolge tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in una Cina in preda agli appetiti coloniali dei grandi imperi. Mentre i governi liberali italiani conquistano la concessione di Tianjin, il Console sembra già intravedere le potenzialità economiche e nazionali della Cina del futuro…
Mi ha sorpreso molto la sua grandissima cultura, in tutti i campi: quella linguistica, il suo interesse per la storia ma, soprattutto, il fatto che avesse una visione economica che definirei globale: guardava a quella regione non come a un insieme di paesi, di pezzi separati uno dall’altro, come potevano apparire osservando una cartina geografica dell’epoca. Lui era in grado di analizzare subito i contatti, i collegamenti importanti tra ciò che accadeva in Giappone, in Cina, nel Sud-est asiatico, nella Grande Russia, in Siberia. È davvero sorprendente.
Il suo primo viaggio lontano dall’Italia, lo fece verso Beirut, dove studiò l’arabo. Non ci sono indicazioni nei suoi studi di grandi approfondimenti di economia. Ma il console generale Volpicelli capiva evidentemente che un approccio di un certo tipo era ormai superato e c’era bisogno di uno più ampio – globale, multidisciplinare -: che cosa significa e in base a quali dinamiche di muove una grande area regionale? Inglesi, francesi erano più avanti di noi in tutto questo, l’Italia era provinciale, ma lui no: aveva una visione globale del mondo. E quello che vedeva in quell’epoca è lo specchio di ciò che sta accadendo oggi in quell’area, che si è svegliata completamente e che sta sfidando l’Occidente, come quest’ultimo sfidava all’epoca quell’area lì.
Una delle passioni più intense di Volpicelli è quella per la Commedia, che cercherà di “esportare” in Estremo Oriente attraverso dibattiti e conferenze. Che significato ha questo suo tentativo di spiegare a cinesi e giapponesi quello che lui chiamava il “vero significato” del capolavoro di Dante?
La Commedia è entrata a far parte della cultura cinese e di quella giapponese. Negli ultimi cento anni, a livello universitario, questo fenomeno è stato studiato a fondo. Nel libro ho riprodotto un frammento della storia della Commedia in Giappone, interessante perché mostra che in Giappone, come anche in Cina, c’è stato un approfondimento del significato della Commedia. Un po’ come hanno fatto con la musica classica europea, si sono impegnati nel tentativo di sviscerare i significati più profondi del capolavoro di Dante, gli stessi che cercava Volpicelli.
Alla fine di “Dante in Cina” c’è il racconto di un viaggio in canoa del Console lungo i fiumi della Cina orientale… questo incredibile viaggio è un’impresa che sembra una testimonianza d’amore per il colosso asiatico quasi senza precedenti da parte di un italiano.
I missionari gesuiti e di altri ordini hanno girato e raccontato tantissimo della Cina, secoli prima dell’arrivo di Volpicelli. Ma il nostro nel periodo della sua avventura in sandolino viaggia da pensionato, malandato, pieno di acciacchi con una gamba che funzionava poco, sempre da solo all’interno della canoa. Era profondamente affascinato dal paese, che tuttavia non vedeva come un’unica identità: riteneva che la Cina dovesse diventare una specie di confederazione svizzera, un modello profondamente diverso da quello attuale infine adottato dalla sua leadership.