Clima, le corporation giocano sporco
Mentre gli Stati si preparano a negoziare un trattato sul clima – a Parigi nel dicembre prossimo -, tra chi si batte contro i cambiamenti climatici sta aumentando l’attenzione per la condotta delle multinazionali.
Se infatti il settore privato ha lanciato appelli a tagliare in maniera più netta le emissioni di carbonio a livello nazionale – una visione echeggiata negli ultimi giorni alla settimana del clima di New York -, tuttavia stanno aumentando le prove che dimostrano come alcune aziende ostacolano gli sforzi per ridurre l’inquinamento da gas serra.
Che il mondo degli affari influenzi i governi è un fatto noto ormai da secoli. Il denaro, e il potere che esso esercita, gioca un ruolo importante nelle elezioni statunitensi. Nel tentativo di bilanciarlo, i parlamentari statunitensi hanno provato ad applicare un meccanismo di obbligo di dichiarazione e trasparenza dei finanziamenti alla politica, che ha avuto risultati altalenanti. Nell’Unione europea il sistema di trasparenza è più debole: esiste un “registro di trasparenza” volontario, nel quale viene chiesto ai lobbisti di dichiararsi, ma un recente rapporto stima che più di metà delle iscrizioni siano approssimative.
La particolare attenzione per l’influenza delle aziende sulla politica sui cambiamenti climatici rappresenta però un fenomeno più recente.
Un rapporto pubblicato questo mese dalla ong londinese InfluenceMap sostiene che quasi la metà delle 100 aziende più grandi del mondo – incluse Procter & Gamble, BMW e Boeing – stiano “ostacolando la legislazione sui cambiamenti climatici”. La ricerca ha preso in esame le dichiarazioni pubbliche delle compagnie riguardo ai cambiamenti climatici e i condizionamenti esercitati da queste aziende sulla legislazione mirata a ridurre le emissioni di carbonio.
InfluenceMap ha esaminato le pressioni fatte direttamente da queste aziende sui processi legislativi, così come quelle delle associazioni di categoria di cui fanno parte. Queste associazioni commerciali rappresentano determinati settori industriali o gruppi che fanno affari con un particolare paese o una particolare regione. Tra i gruppi giudicati più insidiosi figurano: lo European Chemical Industry Council, la US Chamber of Commerce, il Business Council of Australia, e l’onnipotente Japan Business Federation, della quale fanno parte praticamente tutte le più grandi aziende giapponesi. InfluenceMap sostiene che questi gruppi “si sono tutti opposti fermamente per anni alla maggior parte delle legislazioni sul clima”.
Queste conclusioni combaciano con una ricerca che ho condotto quest’anno assieme a colleghi della University of Westminster, che si concentra soltanto sull’Unione europea. Il nostro rapporto, intitolato “Lobbying by Trade Associations on EU Climate Policy” ha rivelato che molte delle principali aziende multinazionali che adottano forti politiche di sostenibilità, allo stesso tempo fanno parte di associazioni per il commercio che fanno pressione contro le politiche climatiche dell’Ue. Politiche che includono i tentativi di rafforzare lo “EU Emissions Trading Scheme” attraverso il “backloading”, e obiettivi di efficienza energetica ed energie rinnovabili.
Il tentativo da parte delle corporation di far naufragare gli sforzi per tagliare le emissioni GHC si è fatto evidente a partire dall’ultima grande conferenza sui cambiamenti climatici, il summit sul clima di Copenaghen (COP15) del 2009. Un vertice generalmente percepito come un fallimento, per il quale alcuni hanno accusato la pressione (per scongiurare un’intesa) delle aziende di combustibili fossili e delle industrie ad alto consumo energetico.
Nel 2011, il capo della divisione delle Nazioni Unite che si occupa di clima, Christina Figueres, affrontò il problema attirando l’attenzione sulle economicamente e politicamente potenti compagnie di risorse che stavano spingendo i governi a preservare lo status quo incentrato sui combustibili fossili.
Le ragioni per le quali preoccuparsi dei condizionamenti delle corporation sulle politiche climatiche sono ovvie. Auden Schendler, vice presidente della sostenibilità per la Aspen Skiing Company e Mike Toffel, professore associato dell’unità di Technology and Operations Management della Harvard Business School, sostengono che “Paragonate agli sforzi delle aziende per rendere ‘eco’ le loro operazioni, le azioni politiche delle corporation (come quelle di lobbying e di finanziamento di campagne) possono esercitare condizionamenti maggiori sulla protezione ambientale e probabilmente costituiscono l’impatto maggiore che una compagnia può esercitare nel proteggere – o danneggiare – l’ambiente”.
Ma il controllo sui condizionamenti delle corporation e delle loro associazioni di categoria è aumentato costantemente negli ultimi anni. La Union of Concerned Scientists ha compilato un rapporto che indica quali grandi corporation statunitensi hanno accettato la scienza dei cambiamenti climatici, ed esamina le loro azioni di lobbying sulle politiche climatiche.
“Sempre più spesso le aziende si appoggiano alle loro associazioni di categoria che fanno il lavoro sporco di lobbying contro politiche climatiche ambiziose – dichiara Gretchen Goldman della Union of Concerned Scientists -. Così le aziende ottengono il blocco di politiche a loro sgradite, e impediscono agli Stati di agire per combattere i cambiamenti climatici. È inaccettabile che delle compagnie possano bloccare l’azione sul clima in questo modo, senza che siano chiamate a risponderne”.
La pressione sul settore privato ha continuato a crescere. Nel 2014, tre agenzie delle Nazioni Unite e un gruppo di ong hanno pubblicato una “Guide for Responsible Corporate Engagement in Climate Policy” e nelle ultime settimane una serie di aziende statunitensi che fanno capo alla US Chamber of Commerce sono finite sotto scrutinio a causa dell’opposizione di quest’ultima al Piano per l’energia pulita del presidente Obama. Allo stesso tempo, in Europa ci sono state lettere da parte degli investitori e sono state sollevate domande nel corso degli incontri tra i proprietari di pacchetti azionari delle compagnie dell’indice FTSE 100 che fanno parte di associazioni come la European Chemical Industry Council e la BusinessEurope, che sostengono che le azioni dell’Ue sui cambiamenti climatici danneggino la competitività industriale.
Il prossimo vertice sui cambiamenti climatici (COP21) di Parigi potrebbe aver motivato in maniera particolare politici e organizzazioni della società civile a controllare le azioni delle aziende, ma è improbabile che l’interesse per le attività di lobbying da parte delle aziende multinazionali e delle loro associazioni svanisca in tempi brevi. InfluenceMap monitorerà continuamente le attività delle compagnie e delle loro associazioni, e prevede di espandersi per includere l’azienda di e-commerce cinese Alibaba nella sua prossima analisi.
Questo controllo restituisce alle aziende (e agli investitori) l’onere di assicurare che i loro staff e i lobbisti che le rappresentano conducano azioni di lobbying sulle politiche climatiche in una maniera chiaramente allineata con gli interessi di lungo termine di queste compagnie, con l’economia e con il clima.
Tratto da chinadialogue