Tel Aviv e Pechino in luna di miele
Israele e la Repubblica popolare non sono mai stati così vicini. Lo scambio innovazione tecnologica-mercati di sbocco gioca un ruolo fondamentale in un’amicizia alla quale il premier Netanyahu ha impresso una forte accelerazione. Il sostegno maoista all’OLP di Arafat sembra uno sbiadito ricordo del passato. Eppure nella politica estera di Pechino, oltre agli interessi economici, dovrebbe pesare anche il suo interesse per un Medio Oriente pacificato. Xi e compagni sapranno inventarsi per il conflitto israelo-palestinese soluzioni diverse da quelle, fallimentari, messe in campo finora dagli Usa?
“L’idea che la Cina diventi ‘parte del Medio Oriente’, che possa giocare in futuro un ruolo importante nella politica estera e di sicurezza nazionale di Israele non è stata ancora assimilata… per Israele, e anche per gli Stati Uniti, non è chiaro che cosa farà la Cina, come i suoi interessi potranno accordarsi a quelli americani, e in che modo esattamente Israele troverà posto in questo quadro“.
Le parole di Yoram Evron – ex direttore del “Programma Cina” dello Institute for national security studies di Tel Aviv -, pronunciate in chiusura di un dibattito organizzato mesi fa da Brookings, riassumono le incognite sollevate dall’attivismo di Pechino in un’area (dall’Iran all’Egitto, dalla Turchia all’Arabia saudita) sulla quale il conflitto israelo-palestinese trasmette da decenni i suoi scossoni.
Con Tel Aviv, Pechino allacciò relazioni diplomatiche il 24 gennaio 1992. Da allora – secondo i dati dell’ambasciata della Repubblica popolare cinese in Israele – il commercio bilaterale tra i due paesi è cresciuto di 200 volte, passando da 50 milioni di dollari 22 anni fa, a 10 miliardi di dollari nel 2013. La Cina è diventato il terzo partner commerciale di Israele e i due esecutivi – che si riuniscono periodicamente in sedute G2G, governo a governo – hanno istituito quattro task force su hi-tech; protezione ambientale; energia; agricoltura e finanza, settori individuati come “strategici” dal 12° Piano quinquennale (2011-2015) della Repubblica popolare.
Per emanciparsi dal ruolo di “fabbrica del mondo” (dove si producono merci progettate dalle multinazionali straniere), la Cina punta sulle start-up e sulla tecnologia israeliana (quella militare non è oggetto di analisi di questo articolo), che possono aiutarla a compiere passi in avanti proprio nei settori sopra indicati.
Il 27 ottobre scorso, investitori e dirigenti aziendali della Repubblica popolare sono accorsi in massa alla 12° conferenza Go4Israel, importante appuntamento annuale israeliano in cui si ritrovano businessman internazionali.
Edouard Cukierman, presidente della Cukierman & Co. (organizzatrice dell’evento), ha spiegato alla rivista online START-UP ISRAEL che “la Cina è diventata il primo investitore in Israele. Per loro Israele rappresenta una grande fonte di tecnologia che li aiuta a sviluppare la loro economia, mentre per noi si tratta di un’opportunità fantastica per accedere al più grande mercato del mondo“.
Negli ultimi mesi, il colosso della ricerca farmaceutica Wuxi ha aperto un ufficio a Tel Aviv, dove lavorerà assieme al partner locale Pontifax Ltd; Yongjin Group ha investito tra i 15 e i 20 milioni di dollari nella Pitango venture capital; Lenovo 10 milioni di dollari in Canaan partners; Ping An Venture ha creato un fondo da 100 milioni di dollari indirizzato alla tecnologia israeliana e statunitense; Shenyang Yuanda ha acquisito, per 20 milioni di dollari, Auto Agronom (sistemi d’irrigazione intelligenti). Un elenco che potrebbe andare avanti a lungo e che dimostra come, nello sviluppo di alcuni settori industriali innovativi, i due paesi si muovano ormai a braccetto.
Yoav Sade, della camera di commercio Israele-Cina, ha spiegato al Wall Street Journal che “la maggior parte degli investimenti (cinesi) a cui stiamo assistendo“, sia quelli diretti nelle start-up di Tel Aviv, sia quelli in fondi centrati sulla tecnologia e su Israele, “hanno natura strategica, non puramente finanziaria“.
In questa direzione va anche la creazione del centro “XIN“, progetto congiunto dell’Università di Tel Aviv e della pechinese Tsinghua che ha attratto fondi pubblici e privati per 300 milioni di dollari, finalizzati alla ricerca e sviluppo di tecnologie innovative nei settori dell’irrigazione, ambientale, energetico, medico, e delle nanotecnologie.
Sono passati meno di tre anni da quando il filantropo hongkonghese Ronnie Chan condusse in Israele la prima grande delegazione di imprenditori e investitori cinesi.
Un lasso di tempo durante il quale – parallelamente all’intensificazione accelerata dei rapporti economici e scientifici bilaterali – si è consolidata anche l’amicizia tra i due governi e tra i due popoli. Nel corso dei bombardamenti dell’estate scorsa contro la Striscia di Gaza (2.192 morti palestinesi, 72 israeliani secondo fonti delle Nazioni Unite), l’opinione pubblica cinese si è schierata dalla parte di Tel Aviv.
I cinesi hanno antichi rapporti di amicizia con il popolo ebraico, le cui prime comunità si insediarono nel Regno di Mezzo durante le dinastie Tang e Song (tra il VII e il XII secolo). All’inizio del Novecento ad Harbin (nel nord-est della Cina) trovarono rifugio le vittime dei pogrom zaristi e, in seguito, i russi bianchi in fuga dalla rivoluzione bolscevica. Soprattutto, negli anni Trenta e Quaranta, circa 20 mila ebrei scappati dalle persecuzioni e dal tentativo di sterminio ad opera dei nazi-fascisti in Europa, furono accolti a Shanghai (una delle poche città del mondo che non pretendeva dai profughi visti d’ingresso), dove l’esercito d’occupazione giapponese li concentrò nel distretto di “Hongkou”. Scampati all’Olocausto, di lì a qualche anno molti di loro si sarebbero recati in Palestina, partecipando alla fondazione di Israele.
Più che questa memoria storica, all’ammirazione nutrita attualmente dall’opinione pubblica cinese nei confronti di Israele sembra aver contribuito soprattutto il mito della “Start-up nation, la storia del miracolo economico israeliano” diffuso anche attraverso un libro – pubblicato pure in mandarino – che propaganda l’immagine di un Israele nazione innovativa affermatasi in un contesto di Stati arabi ostili.
In occasione dell’ultima visita in Cina del premier israeliano Netanyahu, l’ambasciatore della Repubblica popolare a Tel Aviv ha accomunato il “sogno cinese” alla “start-up nation”.
Negli ultimi anni Tel Aviv ha investito molto sulla sua immagine in Cina. Con 850.000 follower, l’ambasciata israeliana è una delle più seguite a Pechino (la rappresentanza diplomatica Usa ha 890.000 seguaci). Così come molto cliccata è la pagina weibo (il twitter cinese) del presidente Shimon Peres.
Come è normale che sia per un protagonista assoluto delle turbolenze mediorientali, Israele segue da tempo le mosse – economiche e diplomatiche – di Pechino nella Regione e si è mosso per tempo, nel tentativo di promuovere tra i policymaker cinesi decisioni favorevoli ai suoi interessi nazionali, da quelle sul nucleare iraniano, a quelle sul processo di pace con i palestinesi. I programmi di scambio su iniziativa del ministero degli Esteri israeliano, così come i servizi di società come Kam Global Strategies, mirano a promuovere il punto di vista israeliano sul conflitto con i palestinesi, sull’Iran, sul terrorismo islamista.
Incontrando a Pechino il presidente Xi Jinping, Netanyahu ha dichiarato che Israele vede la Cina già come “una potenza globale”, “in molti ambiti una tra le principali potenze globali”.
I policymaker che a Pechino si occupano di Medio Oriente hanno certamente ben presenti le mappe riprodotte sopra e quella – linkata qui – che illustra la penetrazione delle colonie ebraiche nella Cisgiordania occupata nel 1967. Una “realtà sul terreno” che, nella West Bank e a Gerusalemme est, si è andata cristallizzando in oltre 45 anni e che, secondo alcuni analisti, rende ormai impraticabile il principio “terra in cambio di pace” sancito dalle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e la conseguente nascita di uno Stato palestinese.
Dal 1967 a oggi il conflitto tra israeliani e palestinesi ha avuto, di fatto, un unico mediatore, quegli Stati uniti d’America che l’intellettuale palestinese Nasser Aruri ha definito “Un broker disonesto” ma che, sotto le amministrazioni guidate da Barack Obama, hanno manifestato segnali di insofferenza evidenti e inediti – almeno per quanto riguarda la durata delle ultime crisi tra Washington e il suo alleato strategico in Medio Oriente – per le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi.
Alla ricerca di legittimazione internazionale, quello israeliano era stato il primo governo mediorientale a riconoscere, nel 1950, la Repubblica popolare cinese, un gesto non ricambiato dalla Cina maoista (sostenitrice dei popoli oppressi e del processo di decolonizzazione) che, nel 1964, era stata il primo Stato non arabo ad allacciare relazioni diplomatiche con l’OLP di Yasser Arafat, il quale più volte ricordò il contributo cinese alla “rivoluzione palestinese”.
La politica di “Riforme e apertura” di Deng nel corso degli anni Ottanta, l’instaurazione delle relazioni diplomatiche ufficiali nel 1992 e il fiorire della Silicon Wadi a Tel Aviv e dintorni (in questo articolo si è scelto di puntare sul rapporto bilaterale e non vengono analizzati fattori importanti, come l’assenza, da anni, di una rappresentanza e di una strategia palestinese; l’abbandono della causa palestinese da parte degli Stati arabi fornitori di petrolio alla Cina; il timore del diffondersi del jihadismo nella regione cinese del Xinjiang) hanno spinto Cina e Israele sempre più vicini, fino alla consacrazione di questa luna di miele con la promessa dell’invio di una coppia di Panda allo zoo di Haifa.
Dal 2002 la Cina ha un suo “Inviato speciale per la questione mediorientale”, attualmente Wu Sike.
La posizione ufficiale della Cina sul conflitto israelo-palestinese resta quella secondo cui “le parti coinvolte devono rispettare le risoluzioni pertinenti delle Nazioni Unite, il principio terra in cambio di pace, l’Iniziativa araba di pace e la Road map per la pace in Medio Oriente e, in seguito a negoziati politici, arrivare alla fondazione di uno Stato indipendente di Palestina, con piena sovranità e basato sulle frontiere del 1967 e con Gerusalemme est come sua capitale”.
Mentre il governo cinese non smetteva di mugugnare per la sua continua esclusione dall’inconcludente Quartetto (Usa, Russia, Onu, Ue) di mediatori internazionali, l’anno scorso il presidente Xi Jinping imponeva la presenza a Pechino del presidente dell’Autorità palestinese (Anp) Abu Mazen negli stessi giorni della visita ufficiale di Netanyahu. In quell’occasione Xi ha sottoposto a entrambi (separatamente) la sua “proposta in quattro punti” per la fine del conflitto.
Il piano del presidente cinese prevede: Stato indipendente di Palestina e coesistenza pacifica tra i due paesi; colloqui di pace come unica via per la riconciliazione; “terra in cambio di pace” come principio fondamentale da seguire nel corso dei negoziati; necessità del sostegno internazionale per garantire il proseguimento delle trattative.
“La Cina sostiene fermamente la giusta causa del popolo palestinese di riconquistare i suoi legittimi diritti nazionali”, ha dichiarato il presidente Xi Jinping il mese scorso, in occasione della Giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese.
Ma cosa pensa la Cina sullo status dei luoghi santi contesi da musulmani ed ebrei in Terra santa; sulla questione dei milioni di profughi palestinesi che hanno diritto a tornare nelle loro case in base alla risoluzione 194 delle Nazioni Unite; sul modo di mettere in pratica il principio “terra in cambio di pace”?
Se mai Pechino vorrà davvero – al di là delle semplici dichiarazioni diplomatiche – mettersi alla prova nelle sabbie mobili del conflitto israelo-palestinese, forse si avvicina il momento (ormai può far valere il peso economico e diplomatico acquisito in Medio Oriente e una leva sempre più robusta nei confronti del tecno-alleato Israele) di mettere sul tavolo le sue carte.
1 – continua
Questo articolo è il primo di una serie dedicata al rapporto bilaterale sino-israeliano e alla posizione di Pechino sul conflitto israelo-palestinese